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Ma che diavolo ci fanno gli scrittori su Instagram?

Che ci fa una scrittrice, uno scrittore, su Instagram? Autopromozione, come tutti, verrebbe da dire: in fondo, non è per questo che vengono utilizzati i social? Oppure, viceversa: cazzeggio, come tutti, perché in fondo è a tale scopo che sono nati i social. C’è però una terza via, stretta e ambigua, a metà tra il profilo impostato del personaggio pubblico (o wannabe) e l’utente comune che spara post a caso (ammesso che esista). È una strada per definizione ambigua, dato che scrittura e fotografia sono espressioni diverse, in certo modo agli antipodi: l’una è indiretta l’altra diretta; una richiede sforzo per essere prodotta e fruita, l’altra è (apparentemente) facile e comprensibile senza bisogno di mezzi culturali; e la distanza si è allargata da quando, con gli smartphone e i social, catturare immagini è diventato alla portata di tutti sia dal punto di vista economico che tecnico, e renderle pubbliche un passaggio immediato per il quale, come si dice, basta un clic. Tanto che si può parlare senza dubbio di era della post-fotografia.

Come si comporta allora uno scrittore, uno abituato ad avere a che fare con un certo tipo di linguaggio, quando è alle prese con un altro completamente diverso? E soprattutto, chi glielo fa fare? Che ci azzecca? Se lo è chiesto Maria Teresa Carbone, giornalista culturale (Pagina 99, Alfabeta2…) e autrice di libri divaganti e colti come 111 cani e le loro pazze storie. Se lo è chiesta ma non si è risposta: lo ha chiesto direttamente a una serie di scrittrici e scrittori – narratrici poeti traduttrici saggisti – la cui presenza su Instagram è in qualche modo significativa, originale. Un certain regard, insomma.

Il libro si chiama Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia (Italo Svevo edizioni). È composto da una batteria di domande comuni, più una specifica per ciascun autore: seguono le risposte, autore per autore, e in mezzo c’è una bella e strana selezione di fotografie degli stessi. (Che sono: Gherardo Bortolotti, Emmanuela Carbé, Tommaso Di Dio, Giorgio Falco, Carmen Gallo, Helena Janeczek, Guido Mazzoni, Giulio Mozzi, Gianluca Nativo, Davide Orecchio, Francesco Pecoraro, Tommaso Pincio, Laura Pugno, Sabrina Ragucci, Alessandra Sarchi, Emanuele Trevi.) Alla fine la postfazione di Andrea Cortellessa. All’inizio un’introduzione dell’autrice, in forma di auto intervista. Visto che tutto questo chiedere e rispondere non mi sembrava abbastanza, ho pensato anche io di intervistarla. Questo è quello che ci siamo detti.

Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia

La prima cosa che colpisce di questo libro, è il libro: come oggetto, proprio. Il fatto che è intonso, che bisogna tagliarlo, come si faceva una volta. Il che implica perderci del tempo, metterci un’abilità o almeno una certa cura. Tutto il contrario della fruizione mordi e fuggi. Ora se la fotografia per sua definizione sta agli antipodi della letteratura, la post-fotografia oggetto del volume, quella legata ai social e a Instagram in particolare, sta ai super antipodi rispetto a un volume dichiaratamente retrò come questo. Insomma non so quanto sia stato casuale o voluto l’incontro con Italo Svevo Edizioni, ma mi sembra significativo.

In effetti la prima volta che ho parlato, del tutto casualmente, di questo libro con Alberto Gaffi (l’editore di Italo Svevo), gli ho detto che la sua casa editrice non sarebbe stata adatta all’idea che avevo in testa. Poi a lui il progetto è piaciuto molto e io mi sono resa conto che ero stata frettolosa, perché diversi titoli della collana Biblioteca di letteratura inutile, quella in cui è uscito Che ci faccio qui?, si basano su un corto circuito simile, come Monsieur Zero di Andrea Cortellessa, dedicato a Manzoni (Piero, “quello vero”, come dice il sottotitolo e come hanno detto prima i Baustelle) o la raccolta di “fascette oneste” curata da Marco Cassini. Ora, a volume uscito, ho un atteggiamento contraddittorio rispetto alle pagine intonse: da un lato la loro “preziosità” mi pare un vezzo, inutile come tutti i vezzi, e non solo perché il testo ha al centro un oggetto contemporaneo per eccellenza, cioè Instagram (un mio amico perfido dice che è come il finto antico dei mobilifici in serie); dall’altro non concordo con l’obiezione che il libro intonso fa perdere tempo – certo la vita è breve, e più uno invecchia e più la cosa è evidente, ma lamentarsi per i quindici minuti passati a tagliare le pagine, beh, anche questo mi pare un po’ buffo. Anche stare “su Instagram” è una perdita di tempo – e allora perché non dedicare qualche minuto a un’attività percepita come inutile? In fondo, almeno nella mia esperienza, è dagli interstizi che possono spuntare le sorprese più interessanti.

Dici che in Italia ci sono più scrittori su Instagram rispetto agli altri paesi: è vero, abbiamo dei dati? E secondo te perché?

Dati veri non ne ho. Quando ho lavorato sul libro, ho fatto una ricerca empirica: ho scelto i nomi di una ventina di autori in ambito anglofono, francofono e ispanofono che in qualche modo potevano essere apparentati a quelli che avevo scelto per l’Italia e ho cercato i loro profili su Instagram. Nella maggior parte dei casi non c’erano, e quando li avevano, erano quasi sempre profili di rappresentanza, con le foto dei loro libri o delle loro presentazioni, oppure c’erano immagini con parenti e amici, scatti di famiglia. Niente di male: anche questi profili appartengono all’universo instagrammatico, ma mi pare che in Italia molte scrittrici e scrittori (quelli presenti nel mio libro e anche tanti altri) cerchino di usare il dispositivo fotografico e di rendere pubbliche le loro immagini non solo per motivi promozionali o privati, ma per esplorare le possibilità del medium, per riprodurre il loro sguardo attraverso le immagini, anche se poi quasi tutti nei dialoghi negano di essere fotografi.

Ora, ammesso sia vero, le spiegazioni possono essere diverse. Da un lato secondo me in molti paesi gli scrittori – e in genere gli intellettuali e gli artisti – hanno un atteggiamento di totale distacco verso i social, in particolare Facebook e Instagram (per Twitter il discorso è diverso, è considerato come uno spazio dove ci si può confrontare fra simili), mentre qui l’atteggiamento è quasi sempre ambivalente: il social “è il male” (vedi l’intervista di Sabrina Ragucci, ripresa con vigore da Andrea Cortellessa nella postfazione), ma al tempo stesso è il luogo dove non puoi non essere, scegliendo anche con cura la parola che definirà meglio la tua posizione (Mozzi che precisa di pubblicare “in” Instagram, rifiutando la preposizione più frequente “su”). Per cui, quando Guido Mazzoni sostiene che non essere stato iscritto a Facebook è come non avere avuto la televisione negli anni Ottanta, dice una cosa giusta ma – almeno per come la vedo io – riferita al contesto italiano; un autore francese o statunitense difficilmente direbbe una cosa simile.

D’altro canto in Italia per motivi storici siamo esposti alla dimensione della visualità più di quanto probabilmente avvenga altrove, e questo ha a che fare anche con un concetto di gusto, individuale e collettivo, che abbiamo introiettato (l’anno scorso ho tenuto un corso per degli studenti americani, la prima cosa che li ha colpiti qui è che “noi ci vestiamo bene anche per fare la spesa”). Quindi non trovo strano che scrittrici e scrittori italiani usino il telefono per fare “vere fotografie”, pur negando a parole di essere “veri fotografi”, e che attribuiscano a queste foto una valenza pubblica, anche se ripetono che si tratta di un’attività marginale (appunti, bloc notes eccetera). E mi pare utile sottolineare qui che un leitmotiv di molte interviste è il desiderio di sfuggire alla “tirannia del bello” attraverso la ricerca dell’insignificanza, parola che ricorre nei dialoghi di Pecoraro, Bortolotti, ancora Mozzi, e che affiora nelle foto di altri.

Nell’intro dici che il vero titolo doveva essere Mi chi, cioè “io qui”: il riferimento è a un aneddoto riguardante un Doge di Genova che invitato a Versailles si vede chiedere cosa lo ha stupito di più della reggia, e risponde mi chi, ovvero “il fatto che ci sia io” – che non è precisamente “cosa ci faccio qui”, ha una sfumatura tra l’alterigia e il postmoderno, appunto. Per una curiosa sincronicità, poco dopo aver iniziato a leggere il libro mi sono imbattuto in un post del comune amico e collega Vito De Biasi, che commenta la criticatissima campagna dell’Ente turismo: “La cosa che mi è piaciuta di più della Toscana sono le mie sensazioni”. E fa una riflessione interessantissima e molto vicina al punto tuo:

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Sì, nel suo post Vito si chiede se “essere sempre al centro, riportando qualunque luogo e sensazione a sé e soltanto a sé, non vale per qualunque esperienza” e se “proprio per questa caratteristica radicale dell’umano i social stessi sono diventati non il medium dell’esperienza, ma l’esperienza stessa”. Temo che qui non ci sia lo spazio per sviluppare questo discorso ma anche io non sarei così severa con la campagna dell’Ente turismo della Toscana. In fin dei conti mettere in primo piano le “sensazioni” del turista mi pare la traduzione un po’ rozza dell’idea che l’esperienza avviene non tanto nel momento in cui si guarda, ma nella consapevolezza di essere esposti a uno sguardo.

Ma a proposito di turismo e di sguardo, ti racconto un piccolo episodio che ripeto sempre quando voglio spiegare in cosa consiste un gruppo di lettura: tanti anni fa, accompagnando un amico genovese in giro per Roma, l’ho portato in una stradina di Trastevere dove ancora c’erano delle vecchie botteghe artigiane, se vogliamo la quintessenza del pittoresco, e lui, che lavorava per la Telecom e prima per la Sip, ha alzato gli occhi e ha fatto un commento che mi ha spiazzato: “Le linee telefoniche sono pessime”. Cioè eravamo nello stesso posto, ma vedevamo – ed eravamo visti da – cose diverse, quindi la nostra esperienza (o per dirla con l’Ente turismo della Toscana, la nostra “sensazione”) non poteva che essere diversa. L’incontro con gli altri (vale per i libri nei gruppi di lettura, ma vale anche per tutto il resto) si basa sul tentativo – faticoso ed esposto a continui fallimenti – di condividere questa diversità, che è solo nostra. Cito dal dialogo con Tommaso Pincio: “Ogni foto pubblicata diventerà comunque un autoritratto, qualunque sia il soggetto dell’immagine”. Poi, certo, lo vediamo benissimo su Instagram, il tasso di banalità e di noia è molto alto, un po’ perché tutti siamo in certa misura banali e noiosi, un po’ perché ci sono trappole che ci spingono verso il già noto, verso l’instagrammabile. Teju Cole, l’autore di Città aperta, fra i pochi scrittori di lingua inglese ad avere esplorato le potenzialità del mezzo sia come critico sia come fotografo, ha scritto un piccolo saggio sulla ripetitività delle foto del Foro romano. Eppure dietro ognuna di quelle immagini tutte uguali c’è la rivendicazione dell’essere lì, proprio lì. Non è lo sprezzante “mi chi” del doge genovese Imperiale Lercari a Versailles, ma segna comunque il punto di congiunzione fra un corpo e un luogo, come lo “you are here” delle mappe.

111 cani e le loro strane storie

Emanuele Trevi fa un’osservazione su Sebald, e anche su alcune delle proprie pubblicazioni passate, molto severa: critica l’inserimento delle immagini nel testo, anche quelle più suggestive e stranianti, critica la contaminazione. Che ne pensi: fotografia e letteratura devono rimanere separate?

Potrei cavarmela con una battuta e dirti che non credo alla separatezza di letteratura e fotografia, perché altrimenti non avrei fatto questo libro (e del resto, in una mia raccolta di poesie precedente ho inserito alcune mie foto per Instagram). Ma vorrei invece fermarmi su una frase di Trevi: “la scrittura è il contrario della fotografia… perché la posta in gioco è suscitare immaginazione nel lettore”. In questi termini sembra che la fotografia non sia tanto il contrario della scrittura ma la sua concorrente (è questa la “guerra fredda” di cui parlava Mazzoni?) e che gli scrittori debbano tenere a bada la fotografia o addirittura estrometterla per non esserne cannibalizzati. Inversamente, in una delle presentazioni del libro Laura Pugno ha detto che dietro l’apparente strapotere delle immagini c’è il primato della scrittura, perché dietro ogni racconto visivo (cinema e tv, ma anche fotografie) ci sono le parole di una storia. Io temo di non avere una posizione forte, mi pare che il diaframma fra le immagini e le parole sia più sottile di quanto ci possa apparire, che – più che una lotta fra due campi opposti – sia in corso un continuo esercizio interno di traduzione, che la contaminazione fra parole e immagini la puoi negare quanto vuoi, ma lei è già lì, come nei sogni.

Coltissima e bellissima la postfazione di Cortellessa: oltre a citare tutti i mostri sacri e gli autori delle riflessioni più profonde sulla fotografia e su come ha cambiato (inventato?) la modernità, è capace di tirare le fila del libro individuando i punti in comune e i fili rossi che trasversalmente uniscono discorsi diversi. Ma non risparmia le critiche: in particolare, mette in luce con rammarico la mancanza di consapevolezza politica di quasi tutte le risposte.

Anche qui, potrei ribattere semplicemente che non ci sono risposte “politiche”, perché io non ho fatto domande “politiche”. Ma mi sembra utile aggiungere un chiarimento. Leggendo la tua domanda, e prima ancora la postfazione di Andrea Cortellessa, mi è venuta in mente una vecchia frase di Jean-Luc Godard: “Non bisogna fare dei film politici, bisogna fare politicamente dei film”. Secondo me è una distinzione che dovremmo tenere a mente, e non solo in riferimento a Instagram. A me sembra che oggi si presti molta attenzione alla lettera delle parole, che si tenda a far coincidere quello che uno afferma con quello che uno è. Qualsiasi tentativo di introdurre dei dubbi, dei distinguo, è visto come una défaillance, un tradimento. In questo modo quello che conta è dire le cose giuste, la politica diventa una questione di posizionamento. Ora, è vero che la maggior parte delle autrici e degli autori con cui ho parlato non parlano o parlano molto poco delle questioni che stanno a cuore (e giustamente, aggiungo) a Cortellessa: il potere, il controllo, la sorveglianza. Ma credo che “la valutazione critica” auspicata (e ripeto: giustamente) da Cortellessa passi più attraverso le domande, i dubbi e soprattutto le opere, in questo caso le fotografie, che attraverso le affermazioni. L’altra sera parlavo con Pecoraro, mi ha detto che da quando è uscito il libro ha maggiori esitazioni rispetto alle foto che scatta e che pubblica. Non so se per gli altri sia così, ma se il libro apre varchi all’incertezza, in chi ha partecipato e in chi legge (magari anche attraverso la postfazione critica di Cortellessa), ho una minima speranza di avere agito politicamente.

Guardando come hai scelto gli intervistati – narratori, saggisti, poeti, traduttori – cioè con il criterio della “significatività” delle foto pubblicate sui social, che ovviamente non corrisponde a “likeabilità” e successo, ho notato che hai giustamente escluso quelli che usano Instagram come un diario di lettura, fotografando i libri che hanno sul comodino o che amano. Mi ha colpito perché è esattamente il modo in cui lo uso io (da un certo momento, all’inizio volevo mettere solo foto di scritte curiose sui muri), una specie di cloud pubblico: inizio un libro, posto l’incipit; finisco un libro, posto la copertina, senza commenti o spiegazioni. In compenso ora mi diverto assai con le stories, mi piace proprio quello che prima odiavo, l’impermanenza, la caducità: mi rilassa. Secondo te dovrei cambiare? Ovviamente ti sto chiedendo un consiglio su come NON diventare un influencer, aiutami ad affossare definitivamente i miei canali perché la capacità che ha l’autopromozione di prendermi la mano mi fa paura.

Ma no, perché dovresti cambiare? Non credo ci sia un modo giusto e uno sbagliato per essere “su” (“in”, “con”) Instagram. E non è neanche del tutto vero quello che dici: alcuni autori presenti nel libro, per esempio Mozzi, Helena Janeczek, Alessandra Sarchi o Emanuele Trevi, postano a volte copertine, frasi sottolineate. Non ho preso quelle foto, non ho approfondito quell’aspetto, perché a me interessava soprattutto esplorare il rapporto fra parole e immagini, capire se – come dice Mazzoni – sono media opposti e in guerra fredda tra loro o se è in corso una tregua, un armistizio, una possibile entente cordiale, se infine posso “leggere” le fotografie nella “coerenza di un percorso” (sto citando il dialogo con Laura Pugno) che include appunto immagini e parole. Poi sui meccanismi di Instagram, gli influencer, gli algoritmi, Mark Zuckerberg, possiamo dire tante cose, e non prive di interesse, sapendo però che quindici anni fa Instagram non c’era ancora e fra quindici anni probabilmente non ci sarà più, o sarà tutta un’altra cosa.

Nell’introduzione parli di un progetto in fieri: possiamo saperne qualcosa in più?

Non è un progetto in fieri: ci ho lavorato per un anno e mezzo, tra il 2017 e il 2018, e parecchie persone oltre a me ci hanno creduto, ma per realizzarlo ci vogliono molti soldi. Era stato individuato un finanziatore importante che aveva dimostrato interesse ma che per motivi esterni si è dovuto tirare indietro. Così ho preferito ibernare il progetto, anche se non escludo che si possa tirare fuori dalla cella di crioconservazione. Ho già in mente alcuni cambiamenti che vorrei apportare all’idea iniziale, ma per il momento lo osservo dall’oblò e lo lascio dormire, anche qui con te. Ti posso solo dire che il progetto ibernato ha a che fare con una questione per me cruciale: siamo immersi nelle immagini ma non le sappiamo leggere. Mi ha colpito, tornando al mio libro, che le recensioni uscite finora analizzino spesso con molta finezza le risposte degli scrittori, ma in nessuna si parli delle loro fotografie, che pure nel volume occupano una sezione importante.

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Questa intervista che ti sto facendo è in un certo modo ulteriormente pleonastica rispetto all’operazione pleonastica (volutamente: quindi postmoderna) che compi tu, anteponendo a un libro di interviste un’introduzione in forma di auto intervista. Allora ti chiedo: c’è per caso una domanda che non ti sei fatta, lì, e che non ti ho fatto neanche io, qui?

​Non rispondo direttamente alla tua domanda (certo, di questioni aperte ce ne sono molte, e per fortuna), ma vorrei dire due parole sulla “operazione pleonastica (volutamente: quindi postmoderna)”, come tu definisci la mia introduzione in forma di autointervista. Per certi versi hai ragione, si può leggere così. Ma c’è un altro motivo, più semplice: a differenza di Andrea Cortellessa (che è un grande amico e che ringrazio qui per la generosità e lo sforzo) io non studio gli “iconotesti” e in questo campo mi sono addentrata con un bagaglio molto leggero, come un’esploratrice che si ritrova in un territorio nuovo e prova a osservarlo più sulla base dell’esperienza concreta che di una solida preparazione. Ho cercato insomma di esporre la mia ignoranza e di farne buon uso. Se ci sono riuscita, non sta a me dirlo.

Se invece potessi scegliere una domanda a cui rispondere tra quelle che hai fatto agli altri?

Quella c’è già nella mia introduzione/autointervista – “Pensi che la pratica della scrittura risentirà della pervasività delle immagini?” – e non posso far altro che ripetere quello che ho già scritto: “Sicuramente, ma non ho idea di come sarà”.

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